martedì 21 febbraio 2012

Io, tu e le rose


Un brutto presentimento mi ha accompagnato per un po’. Poi a Sanremo il timore ha preso forma: la melanconica egemone spelacchiata fisionomia di un cantante fuori tempo massimo bisognoso di esorcizzare l’inevitabile finale di spettacolo. Lo sfarfallio di una splendida figliola testimone di quanto cervello e mutande vadano insieme. Il fiato corto di un comico che ci era anche piaciuto in Basilicata coast to coast ma che defollowiamo all’istante, grazie a battute innovative quali ‘queste non sono minchiate’.

Il dramma si compie con lo scelto pubblico del teatrone Ariston (anagramma di RISATON) che si sganascia estatico. Delle canzoni che vi parlo a fare? Mi sovviene un Carosello  (lavatrici) con botta e risposta  tipo ‘or che bravo sono stato posso fare anche il bucato? /Il bucato in casa c’è chi lo fa meglio di te’ . Appunto. Non sono musicologa. Ma musa della controbotanica sì. Infatti, - e qui entro appieno nel mio – silenziose spettatrici e dunque complici di un intento distruttivo così ferocemente perseguito , sono migliaia e migliaia e migliaia di piante e fiori (sempre che non si voglia metter nel pacco anche la Rai, ma qui andrebbe identificata la volontà di qualche mente strategicamente attiva. Un intento investigativo da anime pure, quali non siamo). Solo nella cosiddetta città dei fiori, infatti, servono piatti così ben presentati quanto di pessimo gusto. Addio al profumo di calle, petunie, gelsomini.
L’aria è pesante per  il disfacimento dell’equilibrio, del garbo, del grande incontro tra chi dal palco offre un talento e chi in platea di quello e in quello alimenta i propri sensi. Mala tempora. Le piante, i fiori e il loro santo protettore in passato avevano davvero fatto di meglio.  Quando ero piccola mia nonna, confinata su una sedia a rotelle, attendeva il Festival di Sanremo tutto l’anno. E alla prima serata si faceva condurre davanti alla grande televisione con serranda e chiedeva di farle compagnia. Dai, guardiamo le ‘toilettes’, diceva. E sotto la serranda finalmente alzata passava Milva, passava Mina, passava Wilma De Angelis. Passavano Dori Ghezzi e Gigliola Cinquetti. Passava Annarita Spinaci con Anna Identici. Passava Iva Zanicchi, passava Shirley Bassey. Mia nonna annotava e dava pagelle.
In realtà le interessavano ben più i vestiti delle canzoni. In fondo alla sua lista c’era sempre Orietta Berti (credo per entrambe le sezioni) ma io restavo lì, bimbetta, e mi divertivo.  Mia madre, che amava molto andare dalla modista (figura scomparsa, era la creatrice di cappelli, quella che le mise in testa una torta fiorita il giorno della mia cresima) teneva d’occhio le acconciature e ricordo che una molletta mezza storta di Betty Curtis alimentò leggende circa le attività nei camerini. Ora persino io che sono loro nemica giurata, credo che i fiori meritino di morire per cause migliori che bordare  il palco dell’Ariston quando sopra ci si vomitano cazzate e stonature. Farsi tagliare il gambo per un paio di belle, bellissime gambe non basta. Schiattare per Passera ok ce lo chiede l’Europa ma per una passera chi ce lo ha chiesto? E finire nel mazzo omaggio a Celentano sarà mica un happy end? Un guru da via Gluck gargarizza invettive contro Vaticano e stampa davanti a una platea vana e lustrinata  e loro ci rimettono petali e corolle. No, non va.
E non va neanche che i giornali ci scrivano paginate sopra. E facciano mostra di prendere sul serio la Rai, che prima paga 300mila euro Celentano proprio perché è Celentano poi si indigna se il ragazzaccio  produce esattamente quello per cui è stato ingaggiato. E si auto commissaria, col DG che manda in Liguria il vice con licenza d’uccidere.  Una gag più che un atto aziendale.

Tra emittenze e eminenze il  quadro è davvero intricato. E mi ripeto: lo scadimento, la volgarità che sta anche in questo gestire la cosa pubblica oltre che nelle battute del comico di turno, nella scosciatura della sudamericana e nelle concioni del cantante che non canta, se meritano fiori sono quelli di carità, se meritano applausi sono quelli che salutano l’addio. Ai tempi,  un tassello fuori posto poteva essere fatale:  Luigi Tenco venne sopraffatto da una canzone mediocre. Oggi, ‘Io tu e le rose’ mi appare luminosa e anche Orietta Berti risale alla grande la classifica. Quanto a mia nonna, avrebbe tirato giù la serranda da un pezzo.


giovedì 2 febbraio 2012

Non è un paese per fiori

Santi e navigatori! Intenditori di divino e lontano, filosofi ed esploratori. Questi eravamo ai bei tempi. Che declino. L’unico Santo nostrano al momento è Versace e quanto ai navigatori…l’ultimo l’hanno visto sbarcare al Giglio. Per farci forza aggrappiamoci al fascino sempreverde di san Gennaro e ai meriti antichi di Colombo: è in America che vi porto, con una storiella bouquet di fiori e religione. Ci sono cose che possono veder luce solo là, tra le pieghe grasse di divoratori di hamburger e le dentature opalescenti di candidati alla Casa Bianca.

Ma questa non è una storia di libertà. Dentro c’è un alito stagnante e reazionario, c’è ignoranza e meschinità: il buio di qua e di là della siepe. Siamo nel Wiscounsin, tra i Grandi Laghi: regione permeata di bellezza pastorale ma non già di pastorale tolleranza.
In una scuola superiore qualsiasi stanno da tempo immemore - sonnacchiosi e defilati - alcuni segnali di cristianità. Sobri richiami al credo dominante per i quali però una studentessa, una su mille, un bel giorno dichiara aperto imbarazzo. E’ atea, spiega la ragazza nell’outing fronte-preside, e chiede quindi l’esonero devozionale: per rispetto al suo nichilismo, per libertà da ogni instillazione dogmatica, o anche solo per legittima ribellione adolescenziale. Quale che sia la nobile scintilla, fa scattare un tiro alla fune sperequato: di qua l’autorità scolastica, molti studenti e tutta la cittadina, di là la ragazza, alcuni gruppi tipicamente made in Usa come la ‘Fondazione per la libera professione religiosa’ e qualche reporter arrivato da fuori. Va da sé che la faccenda finisce davanti al giudice (non ho descrizione ma nei telefilm ce li mostrano neri, abbondanti e nervosi, forse per via degli occhialetti precari in punta di naso), e inaspettatamente, dopo una due tre quattro settimane, la studentessa vede trionfare il suo diritto a dissentire. In nome della legge spariscono dunque da scuola i banner religiosi, la fondatezza del disagio è affermata de jure. Ma. Ecco che entra in scena – rovinando tutto, manco a dirlo - la questione che ci conduce al vivo: i fiori, le piante, gli allori. Maledetti come la prima luna, c’è il loro zampino nello sgradevole prosieguo della storia.
Infatti nel momento della sentenza i sostenitori della ragazza, Fondazione per la libera etc etc in testa, vorrebbero inviarle a casa festosi mazzi di gerbere, ranuncoli, fiordalisi, petunie e quant’altro ma ….ta-tan! non trovano uno, dico uno tra i fioristi-vivaisti-giardinieri della città che saputa la destinazione, accolgano l’ordine. Una valanga di indignados: fiori ai senza dio giammai per mano mia. ‘Fa parte delle mie libertà di pensiero rifiutare un simile ordine’, ha spiegato piccata la proprietaria di ben due negozi locali. Lei non crede, io non consegno: semplice. Risposta articolata e netta da un altro fioraio: ‘Ci vergogneremmo di noi se portassimo anche una sola margherita a quella ragazza”. Quando all’ennesimo contatto pareva si fosse aperto uno spiraglio, delusione: il negoziante ci ripensa e annulla la disponibilità.

v Morale, per congratularsi a dovere i supporters hanno dovuto ricorrere ai fioristi dello stato vicino. In Connecticut sono più open mind, pare. E l’omaggio floreale ha finalmente raggiunto l’atea destinazione. Sgargiante e ridondante di nastri. Esagerato e ingombrante. Ammiccante e volgare. Comunque troppo, per una infastidita da un simbolino grande come una noce. Ma il peggio stava nel biglietto, stupefacente quanto l’America sa essere: ‘God bless you, dear’. Dio ti benedica, cara. E maledica certi compagni di lotta e i loro mazzi di fiori.

mercoledì 11 gennaio 2012

La puzza sotto al vaso

Che tristezza. Archiviato il Natale, fuggito da Lecce Gesù Bambino (trovato a Las Vegas dalla Fox, il bimbo – ora affiliato ad una baby gang nordafricana - ha chiarito che era stufo di sentirsi chiedere chi fosse il suo vero padre), sparite le ragazze dai tg e dal consiglio dei ministri, il 2012 cammina pesante pestandoci i piedi. No money, no job, no smile.

Nessuna consolazione neppure dall’annuncio della messa a punto di un nuovo, straordinario diserbante. E poi, che speranze possiamo avere noi, quelli del lavoro dipendente, della seconda casetta con mutuo, della colf due giorni a settimana, sedotti dalla Panda a metano ma abbandonati, adieu!, dalla politica?? Come se la drasticità della risposta non bastasse, di che umore in particolare posso essere io, se - mentre leggo giornali da depressione leopardiana - mi imbatto in questo tizio..?

Dite che se ne sta a Disneyland abbracciato a una comparsa del giardino di Minnie? Che in visita agli Studios posa per foto ricordo nel set di Avatar? Che quella è sua figlia Fiona (3 anni) vestita per la recita all’asilo? Ingenui. Gallinacci. Gonzi. Per forza vi lasciate sempre convincere a cambiare i tergicristalli nelle aree di servizio della A14. Vedete il mondo con le lenti rosa. Male! Quello che avete davanti è un super tecnico – tra i migliori nel suo campo – esperto in innesti e sperimentazioni vegetali. Dopo il fallimento di tutti i ricercatori delle multinazionali, è stato chiamato lui – per chiara fama – a trovare soluzione alla misteriosa dispersione di liquidi che sta facendo secchi ettari di frutteti australiani. Lo cogliamo inebetito di soddisfazione perché a Sidney, a migliaia di miglia dal suo habitat naturale, ha fatto crescere a dismisura il mostro che vedete. Una roba che manco i fratelli Grimm nel più stregato dei boschi stregati… E altri mostri verranno.

Non voglio risparmiarvi nulla: quella specie di faccione di adolescente brufoloso si chiama Rafflesia arnoldii. E’ la pianta (parassita, manco a dirlo) che vanta la corolla più grande del mondo. Mette lì tutte le sue energie, evidente. Perché non ha foglie, né stami e neppure uno stelo. In compenso puzza convintamente, tipo carne marcia dicono i sopravvissuti. Ma nel buco che ha al centro possono ristagnare litri e litri di acqua piovana: forse l’auspicata soluzione alla crisi australiana. Certo che i tecnici ne sanno una più del diavolo a ogni latitudine. Però io ora temo il contagio. Questa Rafflesia infatti se ne starebbe quieta quieta nelle foreste pluviali dell’Indonesia e tutto sommato potremmo anche sopportarne l’esistenza remotata, se non fosse per l’uzzolo di certi eccentrici. E adesso? Crisi per crisi, magari la rifilano a mo’ di soluzione anche a noi europei... capaci di sostenere che diventeremmo ricchi sintetizzando la puzza e vendendola come gadget ai mattacchioni.

Oppure che piantando Rafflesie nelle discariche illegali potremmo dissuadere i mafiosi allergopatici. Ma la vorreste voi qualche rafflesia a Villa Borghese? O nei giardinetti dietro la scuola di vostro figlio? E se nel flaconcino di violetta, ritrovaste piuttosto il fetore rafflesiano? Dubito che in simbiosi con la piantaccia vi mostrereste serafici come il super tecnico. Ma non sente il tanfo? Sorride pure! E magari ci vorrebbe ilari allo stesso modo.. Almeno Monti non sorride affatto quando parla della Tobin tax. O delle accise sulla benzina. Anzi, si incupisce un attimo se gli accennano dell’Iva al 23 per cento. Ecco cosa fa la differenza tra tecnico e tecnico. Diffidiamo di quelli che alzano gli angoli della bocca. Pensano senz’altro a come sistemare la Rafflesia. Oppure noi.

venerdì 30 dicembre 2011

L'ingorda, egocentrica Meet Eater


Il genere umano versa in grave pericolo.
Il killer ha il colpo in canna e arriva a cavallo di un’idea diabolica; l’arma di massa è realtà, anzi: è ai confini della realtà. Non sarà infatti il banale asteroide Y234nk a farci secchi, bensì l’insinuante, ingorda, egocentrica Meet Eater. E credete, per Meet Eater non esiste un Bruce Willis capace di salvarci.
Adesso, non per allarmismo ma per tentare che almeno  un paio di noi – meglio se coppia in età fertile – si salvi, vado a dettagliare.

Una pianta si è iscritta a Facebook. Ed entra in questo 2012 contando 9761 dannati amichetti. O dovrei dire ‘complici’? Il Goldfinger, il Moriarty, il dottor Mabuse di questa storiaccia ha le fattezze ingannevolmente bonarie di un giovanotto australiano che si professa ‘designer’.  In effetti di un disegno certo si tratta, ma perverso alquanto. Simulando un ‘esperimento universitario’ (ateneo di Queensland, non mi sovviene alcun nobel in arrivo da lì ma transeat) questo Bashkim Isai ha aperto una pagina da cui la pianta saluta gioiosamente i fans e cresce in proporzione all’affetto che con una cliccata le viene dimostrato. Morale ad ogni ‘mi piace’ Meet Eater si alza di una spanna, si corrobora, si espande. Una webcam mostra la sua evoluzione h24. Ma quanti film abbiamo visto dove i cattivi propinano sugli schermi di sorveglianza dei buoni, filmati che coprono la realtà? E cattivi che usano la (le) televisione(i) per manipolare i cervelli? Con l’esperienza che abbiamo, questo Bashkim Isai non ci frega. E’ partito alla conquista del mondo. Un mondo che governerà forse attraverso piante enormi e mostruose che ci faranno loro schiavi. Nessuno ci dice in metri yarde o verghe quanto la pianta davvero misuri al momento, ma chi ha visto ‘L’invasione degli ultracorpi’ o ‘Il caimano’ ha motivo di preoccupazione.

La verità è che Meet Eater cresce tramite l’interazione umana, usando il lato oscuro di Facebook.  L’intento ufficialmente dichiarato dal designer australiano è dimostrare che uomini e piante possono essere simbiotici, sfruttando sapientemente web e tecnologia. Sapevo – come scrive Bill Bryson in ‘Un paese bruciato dal sole’- che gli australiani sono tipi eccentrici e a volte autodistruttivi (memorabili le pagine in cui Bryson descrive il loro folle perseverare nel jogging a un passo dall’oceano, pratica che consente di sfamare ogni anno migliaia di squali),  ma che un australiano stesse attentando al genere umano, è una constatazione inquietante. Comunque Meet Eater  butta getti a destra e manca e bisogna fare qualcosa.  Se non puoi battere il tuo nemico, diventa suo amico, dice il saggio. Io lo farei, giuro, ma ho un blog da difendere. Cercate di capirmi.. cliccate avanti voi. qui  



sabato 24 dicembre 2011

Tanti auguri

Tanti auguri, cari sradicabili. Devo dire che sotto il cielo natalizio oltre all’allegro tandem Monti Fornero anche i giornali ci scodellano forti emozioni.
Ringrazio dunque il ‘Guardian’ per aver dato la giusta evidenza alle disavventure di un quarantaseienne inglese che, causa le consuete invasioni domiciliari che si accompagnano alle feste, ha dovuto lasciare il calduccio della sua casa nel Kent per il fresco del carcere di contea.

Le piante sono portatrici di sciagure, non mi stanco di ripeterlo. E Ian Richards ha iniziato a capirlo quando gli agenti hanno fatto irruzione nel suo salotto. Già non poteva sceglier peggio l’albero di Natale.
Averlo ‘vero’ è di per sé segno di propensione a delinquere: si toglie un polmone verde alla comunità per procurarsi un tronco sbilenco che sparacchia foglie secche. Così si incrementano rifiuti e lombalgie (provate a raccattare per giorni aghi di abete) appesantendo la spesa pubblica.
Siamo qui per risparmiare! Non che Ian Richards avesse un opacizzato senso del denaro, però – cazzo – occorreva proprio addobbare una pianta di cannabis e tenersene in casa altre per una ventina di Natali a venire? questo è spreco e - devo chiedere non son sicura – magari vilipendio (di tradizione sovranazionale). Pare che vedendo addobbi e palle pendere dalla cannabis anche le forze dell’ordine si siano infastidite: ”Usare una pianta di cannabis in quella maniera significa disprezzare profondamente la legge”, sarebbe stato il commento dell’investigatore Darren Dennet. Un uomo decisamente sensibile che a mio parere ha ragione da vendere.

L’avventato Richards, all’opposto, da vendere non ha più nulla.
A Natale più che parenti e amici, lui aspettava clienti. In una delle camere da letto i poliziotti hanno trovato una fabbrichetta di marijuana capace di abbondante produzione. Ora lo spaccio aziendale è chiuso: Richards si è beccato diciotto mesi. Doppia la morale della storia: uno, l’imprenditoria dà segni di vita ma è schiacciata dalla burocrazia, due vedrai che quando esce Richards decide di delocalizzare…
Intanto si farà in cella anche il Natale 2012 ma almeno sta sicuro che l’albero lì lo fanno finto.

domenica 4 dicembre 2011

Bella di un giorno

Vedo rosso e non mi chiamo B. Vedo rosso e non credo ai comunisti, né a Babbo Natale. Sono un tipo equilibrato, quindi, ma in questo periodo dell’anno il rosso mi pulsa davanti agli occhi.
L’Euphorbia Pulcherrima è in agguato. Temporizzata, fotoperiodica, ordigno floreale a orologeria, esplode con la novena e va sotto il falso nome di Stella di Natale. Fiutando il consumismo, con una spregiudicata operazione di marketing si è legata alle feste di fine anno come certi giornaletti si abbinano ai grandi quotidiani per trovare una platea. E ce l’ha fatta: si stravende solo un mese all’anno, il resto del tempo dormicchia indisturbata e anonima, pasturata nei vivai nell’unica non stressante attesa del Natale successivo.

E brava l’Euphorbia, riuscita tra le piante laddove in mille tra gli umani hanno tracciato la via: dare poco prendendosi molto, sfilarsi sul più bello e risorgere alquantum postea, per gabbarti di nuovo. Già perché in tutto quel tempo dimenticheremo di come la Stella ci abbia deluso: esplosiva e abbagliante nei paraggi dell’albero, era già in vena di spelacchiamento una manciata di giorni appresso. Mogia all’arrivo dei magi, nuda allo sgombero degli addobbi. Quelle che superano il 15 gennaio ingannano brevemente: annaffiate cautamente tosto s’inzuppano e marciscono rapide, oltre il necessario.
Una stella di Natale non muore: stramuore. Così vi fa del male, vi abbindola, vi istupidisce più del ritornello di Jingle bells. E lei, che sa dove toccare, cavalca non solo il buonismo natalizio ma si presta alla beneficienza (una stella per questo, una stella per quello) perché così fa business ballandovi sul cuore. Una tattica infallibile. L’anno dopo infatti, stolti la ricomprerete, perché sì, adesso so come si fa. La solita saputa che vi è parente o amica, puntuale vi rimbecca anticipatamente: quando perde le foglie devi metterla al buio! E coprila! (non dice coglione unicamente perché non le basterebbe) Dandole retta avete avuto storie difficili con i ripostigli, covi di ex pulcherrime incappucciate come ostaggi di narcos (sono orginarie del messico: dunque avezze ai narcos e aliene ai nostri climi).

Naturalmente manco una pianta è mai tornata quella di un dì perché se è vero che una volta (una sola) c’è stata la resurrezione, è anche vero che non s’è visto il becco di un foglia rossa. Mai più. Non ascoltate chi adesso dice che con la tecnica si può governare la situazione. Naa. Le foglie rosse ci circondano in questi giorni ma sarà la solita fiammata. In più il 2012 sarà bisesto. Vi pare che proprio in un anno bisestile l’Euphorbia cambia tattica?

lunedì 14 novembre 2011

Porca Miseria!

Bene, adesso ci tocca per forza mettercela in casa. Io la detesto più di ogni altra, come si detesta tutto quello che fa da tornasole alle nostre manchevolezze. Parlo della Tradescantia, vulgo ‘erba miseria’. Niente di originale da parte mia, s’intende: chi non detesta la povertà più nera? Chi non la teme? Chi non la fugge?
Se poi la miseria si sostanzia in un vegetale, esplode l’effetto potenza. E io con la tradescantia ho un conto aperto da anni. Nella beata gioventù, quando si è ciechi di realtà e smaniosi d’esperienza, riempivo i monolocali dove con frequenza schizotica traslocavo, di leggiadre piantine. Le piazzavo ovunque. Soprattutto in bagno cercavo l’apoteosi cromatica, un esorcismo del water credo, ma dopo poco i vasi contenevano solo mummie. Stessa sorte per qualsiasi pianta varcasse il mio perimetro domestico. Qualcuna decedeva fulmineamente, neanche il tempo di acquistarla, qualcun’altra alla seconda innaffiata si ritrovava le foglie sparse come le trecce dell’Ermengarda, ugualmente rorida di morte. Il più stramazzava massimo in una settimana. Presa-piazzata-stecchita: la sequenza si ripeteva inesorabile. Questo insistere costicchiava pure, ma tracotante di orgoglio non arretravo. Oggi mi vedo, antipatica come solo io so essere, andare avanti indifferente a chi diceva molla, lascia perdere, non è per te.

L’impuntatura portò dunque a questa pianta piangente, una che invece di mirare al cielo spingeva getti e foglie verso il basso. Inedita! La gravità giocava dalla mia parte, e la pianta, di cui ignoravo il nome ma che importava (ripeto, ero giovane. Giovane!), superò inaspettatamente la settimana. Poi rigogliosa il mese: in bagno pendeva tutt’un intreccio di rami e rametti, un trionfare di verde carnoso, un’esplosione di benessere vegetale. Finchè non venne a trovarmi la Stella, una collega con la mania dei cani e della natura, intimamente vocata al catastrofismo, una che aveva sempre avuto da ridire sulla mia gestione del verde. Fui soddisfattissima quando chiese di andare in bagno: lì cresceva la pianta misteriosa, il mio riscatto.
Per giungere a destinazione l’amica avrebbe dovuto scostare una vera cortina di fogliame: quel suo impulso naturale cuciva insieme cesso e successo. Attendevo.
L’urlo arrivò prima dello sciacquone: ‘Ma cosa ti sei messa in casa??!’.
Uscendo dal bagno, ges ticolava come un mulino a vento: ‘La pianta della sfiga, la miseria! Sei matta?! E’ il peggio del peggio! Altro che specchi gatti o venerdì tredici! Cosa ti è saltato in testa?’ Teneva in pugno il sospensorio per rampicanti con la tradescantia (chiamiamola scientificamente), le fronde a spazzar terra: rievocazione scomposta di Giuditta e Oloferne, un soggetto quanto mai sgradevole.
Infatti ci rimasi malissimo. ‘Da quanto ce l’hai?’ chiese guardandomi storta. La risposta non era interessante, perché incalzò subito con ‘Comunque la butto io..’ e mi passò davanti come un razzo, infilò l’uscio di casa e scomparve tracciando un sentiero di piccole, malefiche foglie. Spazzai via con quelle ogni residua velleità e un pollice verde che non avevo mai avuto.
Quell’anno scoprii che l’ex fidanzato, quello che con me voleva leggere Proust sotto un salice e discutere spesso di Klimt e Kokoschka, aveva impalmato miss Italia 1979, una che dichiarava gioiosamente di fare l’orlo alle braghe dei fratelli e di avere letto in adolescenza giusto un giallo mondadori, senza per altro averlo finito.

Nello stesso periodo mi rubarono l’auto e mi arrivò una cartella delle tasse (errata) che sventai solo dopo una trafila lenta e dolorosa. Ora, non è vero ma ci credo. La sfiga esiste e forse la Miseria, con quella crescita in abnorme contrasto col trend personale, c’entrava qualcosa. Alla Stella come che sia porto perenne riconoscenza e voi, che leggete questo post come il verbale di una seduta d’analisi, adesso condividete le radici (parola orrenda) della mia intolleranza alle piante da appartamento. Ingannerei soprattutto me stessa se però affermassi che reginetta di bellezza, furto auto e cartella esattoriale hanno avuto lo stesso peso nell’evolversi della mia vita e del mio sentire. Ecco che non lo farò ed ecco anche perché adesso trovo poco digeribile il ritorno diffuso della ‘miseria’ negli interni italiani.
Questa volta però io non c’entro. Purtroppo il perseverare laddove non si hanno competenze, non è un atteggiamento originale. Né solo giovanile. Qualcuno in questo modo ci ha infilato in casa foreste di tradescantia. Un nome onomatopeico ed evocativo, vero? W missitalia, w le tasse, w la fiat.